Racconti basilicatesi
Sono 18 racconti o ambientati in una Basilicata reinventata dalla fantasia dell’Autore o apparentemente mossi da tematiche e personaggi, che, pur legati in qualche modo alla Basilicata, vanno oltre la dimensione regionale.
Racconti autonomi e in sé conclusi, ma tenuti da un collante: tutto quello che suggerisce e simboleggia l’aggettivo inusuale basilicatesi adoperato qui con bonaria ironia.
Opera di alto valore letterario, scritta con un linguaggio limpido e corsivo, ricca di suggestive forme dialettali, varia negli ambienti, nei personaggi e nei sentimenti, che sono universali.
La raccolta ha vinto il primo premio assoluto de I Murazzi (Torino, 2018).
Racconti basilicatesi
- Stefano VALENTINI, «La Nuova Tribuna Letteraria», a. XXIX, n. 133, gennaio-marzo 2019, p. 55
- Tullio DANESI, «Vernice», XXV (febbraio 2019), n. 56, p. 162 s.
- Gianrocco GUERRIERO, «Vernice», XXV (febbraio 2019), n. 56, p. 163 s.
- Cesira MORANI, «Vernice», XXV (febbraio 2019), n. 56, p. 164 s.
- Antonio LOTIERZO, Michele Battaglino: “Racconti basilicatesi”, «Talenti lucani, it. Passaggio a Sud», 9-5-2019 e «Academia.edu», 21 aprile 2020
- Giovanni CASERTA, Matera, 13 agosto 2019
Questi “Racconti basilicatesi” di Michele Battaglino, editi da Genesi (Torino), in quanto primo premio ‘I Murazzi 2018’, meritano lettori europei che vogliano perdersi nelle relazioni fra tradizione rurale e inurbamento, in quella doppia anima scissa fra paese d’origine e incontri metropolitani che è uno dei fili che lega questa limpida narrativa. Battaglino è un nostro analogo. Un inquieto e riflessivo contemporaneo. Ha attraversato un percorso culturale che da Genzano di L., a cui ha dedicato densi e precisi saggi storici, lo ha portato a Pisa, in una bilocazione culturale che gli ha consentito di fare stridere i comportamenti lucani, le ‘antiche costumanze’, con le urbane dimensioni della vita associata nell’età del capitalismo consumistico, appena prima della globalizzazione. Non è solo il tema del ‘cafone in città’, già avvertito da Francesco Compagna in poi ma è l’attenzione verso suoi personaggi ambivalenti, come molti di noi ed in cui ritroviamo consonanti esperienze vitali. I narratori ebraici, a dire il vero, sono stati i più alti osservatori di queste ambiguità ed ambivalenze, fra diaspora e nuovi radicamenti. Michele Battaglino non è un Isaac B. Singer lucano, certo, ma forse le assonanze o gli echi attraversano la scrittura. Certo la sua cadenza si distanzia dalle affabulazioni di Raffaele Nigro ‘piantatore di lune’ o dalle surreali e stranianti ironie di Gaetano Cappelli o dalle epopee familiari di Giuseppe Lupo o dal magismo interno di Mimmo Sammartino. Non di meno il contesto è lo stesso: narrazione di dicotomie, di straniamenti, di spaesamenti, di passaggi dal mondo rurale degli anni Quaranta alla vita urbana degli anni Settanta. Oltre ‘Rocco e i suoi fratelli’. In chiara sintesi, Battaglino condensa questa condizione nel personaggio che si muove in ‘Luana’: ”Si sentiva proprio solo adesso. Una solitudine palpabile, materializzata. La toccava, se la trovava intorno, sulle spalle. Era un vuoto, un senso di spossamento, di inerzia della mente e dello spirito. Davanti a sé come in uno specchio si presentavano certe circostanze dolorose della vita, l’infanzia, il paese, il Sud assolato, la casa contadina, i pochi soldi e i tanti sogni al momento della partenza per l’Università in una città così lontana, le difficoltà e i contrasti del nuovo ambiente, gli oggetti e i giorni spensierati impressi nella memoria, la sfiducia e il coraggio di andare avanti, sempre avanti.” (p.135). In questa condizione di ristrutturazione della personalità vivono tutti i personaggi dei diciotto racconti, di ineguale lunghezza e spessore, descritti da questo narratore onnisciente, esterno e regista, che, per me, funge da cerniera unificante di questo mondo variegato che Battaglino sa fare rivivere e presentare. La sua cultura classica è, fin troppo, presente nella strutturazione dei racconti e nel disegno dell’intreccio. Il suo inserimento in una trama storiografica (da G. Racioppi a M. G. Pasquarelli o G. Gattini) è ben delineato e marcato. Lo sfondo storico dei racconti è segnalato con tratti rapidi ma sempre precisi ed opportuni: i terremoti e i nuovi rioni; la vita universitaria nelle città del centro-nord; le forme e la frenesia dell’erotismo giovanile; le opere d’irrigazione; la vita degli anziani con le badanti straniere; gli effetti dell’estrazione del petrolio. Dentro questi colorati scorci storici Battaglino disegna un’interna geografia, tanti borghi – da Banzi a Tursi, da Polla a ‘Festula’- per tanti racconti che coprono un’ampia spazialità meridionale. Lo stile fluisce con limpido controllo e s’impreziosisce dei dialettismi che sono il colore dell’anima italiana: ’cuffiavi’, ‘lopa’,’cuccuvascia’, il ‘cutturidd’,’stacca’, ‘cucuzze’, ’maestricchi’, ’oglia’, ‘ciamaruchelli’, ‘gregne’, ‘ verrèdde’. E i soprannomi servono ancora di più a colorare l’ambiente, che non è bozzetto per quella voce narrante di cui abbiamo detto, voce autoriale che fluisce ed impregna di sé la narrazione, unificandone il flusso, che non tarda a svelare venature autobiografiche. Ne ‘Il manuale’ v’è una storia di sesso e mazzette, che emerge dopo il funerale di Cinto La Volpe, ‘quel grasso e schifoso porco delle licenze edilizie’. In ‘La smalizia’ è Milena, un’universitaria, che cade nei raggiri spudorati del bellimbusto Aurelio. In ‘Bagno Stella’ sono le illusioni morbose dell’innocente Fania a snocciolarsi nei pomeriggi marini. In ‘Irina’ le vicende della badante bulgara, le sue attese e peripezie, si rimescolano con i pensieri pieni di prostrazione dell’architetto che assiste il padre novantenne lucano, lui che lavora in una lontana città del Nord. Nei ‘Frequenti e brevi ritorni’ al paese l’avvocato assicurativo Alfredo Celano, cultore della pittura del Sei-Settecento, vive il paese come un ‘monumento unico’, s’immerge nei sapori del bollito d’agnello, ne constata lo spostamento nell’area di nuova edificazione e dà conto a Battaglino di descrivere le emozioni del paese dell’anima:” Ma il ritorno al paese nasceva da altre motivazioni e aveva un sapore diverso. Era il ritorno al punto di origine, smarrito dopo il taglio del cordone ombelicale e il conseguente lancio nello spazio e nel tempo imprevisti e imprevedibili, attraverso vicissitudini, esplorazioni e conoscenze, illusioni e delusioni e ancora speranze fino all’ultimo. Un bisogno di atterrare dopo tanto volo quietamente, di ricongiungersi a quel punto, a sutura del cerchio. Un chiudere i conti senza chiasso, senza litigare sul dato e sul ricevuto. Ogni cerchio che s’apre non si dà pace e resta in attesa della sua chiusura. La perfezione sta nella chiusura ermetica che ricompone l’originaria integrità” (p.73). Quanti noi si possono ritrovare in queste contorte e dialettiche emozioni che Battaglino sa esprimere col suo stile riflessivo e denso di intrecciati sostantivi! In altro racconto vi è Tano il cercafortuna, che da corriere agricolo gli capita di riuscire a sistemarsi in villa, con in più un sincero amore. Alla notevole serie dei personaggi femminili che Battaglino sa delineare e far rivivere nei suoi racconti appartiene ‘ La Stralonga’ dove l’occhio incattivito, roso -come da dato antropologico – da cupa quanto inconcludente invidia dei compaesani, l’alta Maria è riuscita a sradicarsi dall’ ‘odioso paese’ e lavorando a Bari si emancipa sia come segretaria e sia come bella di notte, concludendo poi un appagante matrimonio. Bel racconto questo, in cui la tensione degli sguardi invidiosi dei poveracci compaesani s’innesca nella crisi della moralità tradizionale e nel conseguimento di una sessualità capace di godimenti integrativi. Saltando altri positivi racconti, mi soffermerei, per concludere, su ‘ Cronaca di una vigna inesistente, ma che s’ha da vendere’, in quanto molto legata al tema della mentalità paesana, che Battaglino sviscera attraverso questi suoi personaggi (qui in oscillazione fra Pirandello e Verga, ma con un rinvio anche a Boccaccio per la sua rapidità di scrittura e sintesi d’una situazione sociale in rapide sequenze). Caricato dell’affettuosa ironia dell’autore, Alberto La Oglia è, invece, un perseguitato dai cattivi paesani, un capro espiatorio, come ne abbiamo conosciuti tanti, un ‘appicciafuntane’, lo zimbello dei burloni che si accaniscono sulle debolezze di un paesano, caricandolo di scherno, trapassando nell’altro quella parte fetida che si macera nel proprio inconscio. Vi è un meccanismo di proiezione ma che non lascia affiorare la propria debolezza e follia, perché l’altro è sempre uno specchio dell’io. Da questa tensione (che è verso l’ubriaco povero detto ‘u sciacalle’; verso il bracciante soprannominato ‘ a joccula’, spinto a covare come una gallina; verso l’impiegatuzzo al bar che doveva spiegare a tutti cosa fosse l’ ‘arrapizzo, beninteso’) nasce una forma di ‘teatro popolare’, che abbiamo visto svolgersi oralmente nelle piazze o in un angolo del paese e nelle cui grasse rappresentazioni, a cui partecipano sbellicandosi molti professionisti e seri paesani, si scarica l’aggressività sociale, come anche nella passatella, ridendo del ‘Gimpel, l’idiota’ come se non bastasse poco a trasformarci tutti in quel personaggio dileggiato, vera messa a terra delle tensioni intracomunitarie. Ma l’Italia è un paese di tal fatta e tensioni e qui Battaglino diventa testimone di ‘valori unitari ed equivalenti dell’intero Paese e del suo cammino di evoluzione sociale’, come i giurati dei Murazzi individuarono con onesta intelligenza selettiva.
Caro Michele,
ho letto anche i tuoi Racconti basilicatesi e la raccolta poetica Tessere alla deriva. Potrei risolvere la questione con una sola affermazione: sono due opere “serie”, come sono sempre le nostre cose di professori che hanno insegnato, educato e dato alla parola un valore importante, quale mezzo di comunicazione che deve cercare e cerca innanzitutto chiarezza, semplicità e, in sintesi, onestà. Le tue liriche, sempre sincere, si arricchiscono di un substrato culturale che manca, moltissime volte, ai poeti laureati e celebrati, troppo impegnati ad andare in giro perché possano studiare. Dei racconti, vedo che sono equilibrati “pezzi di vita”, raccontati con partecipazione, ma senza patetismi. Esprimono l’attaccamento alla propria terra, da cui non si sarebbe mai voluto andare via. Si cerca consolazione nel ritorno, di tanto in tanto. Ma ogni ritorno è una presa d’atto di una malattia che corrode e consuma. Il premio a te assegnato è meritato. Un solo appunto, che è puramente esterno all’opera, che avrei intitolato “storie basilicatesi”, perché poco vi è di inventato. Molto o tutto è conoscenza reale, quasi cronaca, di fatti e personaggi, compreso l’autore.
Un cordiale saluto e molti auguri.
TRACKS
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