Radici e ali
La silloge comprende tre sezioni: Reminiscenze, il cui tema centrale è l’adolescenza nelle sue sfaccettature; Oltre il visibile che riflette sulla problematicità della vita umana; Pisa e dintorni in cui si scolpiscono tratti paesaggistici interiorizzati. Già il titolo indica in modo chiaro due approcci diversi e complementari alla realtà: il radicamento memoriale a fatti, cose, persone e la ricerca del volo liberatorio verso un altrove. L’Autore, con toni di volta in volta elegiaci, esistenziali o storico-narrativi, crea un tipo di poesia aperto al dialogo, alla comunicazione, con un linguaggio essenziale, maturo, ricco di elementi simbolici, di rime assonanze allitterazioni, che danno compattezza al dettato. Utilizzando i giusti filtri, sprigiona sentimenti, sensazioni, emozioni senza franare nel banale o nel lezioso.
Radici e ali
- Patrizia NAPOLEONE, relazione del 27 maggio 2007
- Gabriella DONATI, «Leukanikà» [rivista lucana di varia cultura], VII (giugno 2007), n. 1-2, pp. 73-75
- Giorgio BÁRBERI SQUAROTTI, Torino, 27 giugno 2007
- Carlo MOLINARO, Michele Battaglino, «Vernice», XIII (sett. 2007), n. 36, p. 111
- Antonio MASSARO, Le riflessioni sulla fatica e l’amore per Genzano, «La Gazzetta del Mezzogiorno», domenica 8 luglio 2007, p. 7
- Franca AMENDOLA,, Le regioni aeree e sonore di quella poesia che sa appagare la “sete”, «La Nuova Basilicata», 15 gennaio 2008, p. 34
- Ivana TANZI, Tra radici e ali, dove c’è poesia, «Il fogliaccio di Pisa», 21 marzo 2008, n. 287, p. 10
- Orio ZACCARIA, «La Nuova Tribuna Letteraria», XVIII (3° trimestre 2008), n. 91, p. 43
- Nazario PARDINI, Nota al libro Radici e ali di Michele Battaglino, 25 settembre 2008, Blog Alla volta di Leucade, 3 luglio 2011
- Luigi BLASUCCI, Pisa 27 maggio 2007
Senza radici non si vola è il titolo di un libro di Bertold Ulsamer, psicoterapeuta tedesco che ha studiato sul piano sistemico come le persone che sono meglio collegate con le loro radici familiari e culturali sono anche quelle che sanno meglio ‘spiccare il volo’ verso mète individuali e lontane dalle loro origini. Guardare alle proprie radici non è un rifugio dell’anima stanca di futuro, ma un andare a prendere nutrimento ed energia per la propria vita, da vivere nella pienezza del presente e in una vivace aspettativa di futuro.
La raccolta di poesie di Michele Battaglino Radici e ali ha, secondo la mia lettura, questo programma esistenziale. Anche l’andamento compositivo e strutturale segue il percorso dalle radici alle ali.
Osservata infatti da un punto di vista psicologico, e mi si permetta di seguire (dal momento che sono anche una psicologa) questa pista di indagine del testo, la prima sezione (“Reminiscenze ”) ha l’andamento dell’albero, che è il simbolo dell’uomo dalle radici familiari e culturali, in cui ha preso il primo alimento vitale, al tronco, che è la costruzione della propria personalità, alla chioma, che rappresenta le relazioni, le risorse, i rami, i fiori e i frutti dai quali gli animali alati, che vi si posano, prendono il volo.
Perciò in Radici e ali la prima sezione (“Reminiscenze ”) è per il poeta un andare dalla parte delle radici, una revisione poetico-estetica dei semi che hanno alimentato l’infanzia e l’adolescenza, ma anche un dialogo aperto con la funzione psichica del bambino interiore che è in tutti noi.
Pascoli, nel saggio “Il fanciullino “, ritiene che ‘vedere’ attraverso gli occhi del proprio ‘bambino interiore’ sia indispensabile per essere poeta, fare grandi le piccole cose, stupirsi per un fiore che sboccia, meravigliarsi di fronte a un tramonto o a un chiaro di luna; dice che ascoltare la sua piccola voce significa fare silenzio, poiché col tempo la nostra voce si è arrochita e sovrasta, copre quella argentina del bambino. I copioni, i giudizi e i pregiudizi si stendono come polvere che poi s’incrosta sullo stupore infantile. Pascoli dice anche che il poeta è ‘un mago’, poiché la trasfigurazione della realtà attraverso la parola poetica appartiene al ‘meraviglioso’ del mondo delle fate e dei maghi e anche (come sappiamo) dei bambini. Perciò, chi, come il poeta, dialoga con la sua infanzia è più vicino al meraviglioso e al magico. Pascoli, soprattutto quello delle Myricae e dei Canti di Castelvecchio, è un poeta amato da Michele Battaglino nelle cui poesie ritornano le atmosfere della pacata malinconia del ricordo, l’osservazione del dettaglio naturale, i suoni onomatopeici dei versi degli animali fattisi più sapienti degli uomini sul senso della natura, infine la tradizione delle storie e delle favole narrate.
Già nella lirica “Bastava strimpellare una chitarra” (p.7), che precede la prima sezione, c’è tutto questo. Egregia la collocazione proprio al centro, nel cuore della poesia, della “voce che narra / antiche storie portate dal vento” e dell’ “inebriarsi di briciole di niente” nella conclusione, dove la parola sublime inebriarsi si intensifica per l’ accostamento contrastivo con ‘le briciole di niente’ dove sta la grandezza della natura, proprio nel suo farsi piccola. Leopardi nello Zibaldone dice che sono poetiche le parole indefinite, i suoni che giungono da lontano, come stinti dal tempo e dalla distanza. Ci siamo chiesti: perché ? Ebbene, perché l’indefinito, il vago, accende l’immaginazione creativa.
Pascoli è stato un illustre lettore critico di Leopardi e ha combinato gli elementi dell’indefinito e della vaghezza leopardiana con la precisazione rigorosa del dettaglio, la messa a fuoco del particolare che campeggia tra brume e nebbie che non sono solo metereologiche, ma evocano nostalgie di passati e malinconie di distanze, come in “Lavandare”: ” Nel campo mezzo grigio e mezzo nero/ resta un aratro senza buoi, che pare / dimenticato, tra il vapor leggero”.
Ebbene, queste atmosfere leopardiane rivisitate da un Pascoli campestre io ritrovo nel nostro poeta in “Non più animate da voci e tonfi” (p. 13). Qua i nidi di allocchi e balestrucci con la precisa nomenclatura degli uccelli, il dettaglio delle ‘chioccioline abbarbicate’, il suono onomatopeico del verso del chiurlo si combinano con l’effetto di indefinito del ‘tratturo vuoto / in lontananza’ e del ‘silenzio’ in cui, come in un mistero, si raccoglie nella conclusione, tutta la poesia.
Dalle radici della poesia più moderna e più classica, Leopardi e Pascoli, cresce l’identità poetica di Battaglino attraverso il nutrimento di un altro grande classico-moderno, Montale, prima ancora che nella semantica, nella fonetica, nella ricerca di allitterazioni tramate di suoni rotacizzanti già nella citata “Non più animate da voci e tonfi”: “cerco tra i cardi/ secchi il prelibato cardoncello/ e le chioccioline abbarbicate/ agli sterpi della siepe” dove la r si stringe sulla sibilante di secchi, quasi a mimare nel suono il processo di secchezza della pianta e si scioglie nella parola centrale del verso prelibato, che pianamente distanzia ‘secchi’ (bisillabo accartocciato su stesso) dall’allungo del quadrisillabo ‘cardoncello’, in cui le o arrotondano la scoperta del gonfiore croccante della pianta viva.
Ma il componimento in cui Battaglino abbraccia la visione montaliana e la sua filosofia è “Il quartetto” (p. 17). Qua parole come ‘prodigio’, ‘indifferente’, ‘dell’arcano nessun indizio’ rimandano alla “divina Indifferenza” di Montale in “Spesso il male di vivere” e confermano che la Verità sembra rivelarsi per caso, per lo sbaglio o la distrazione della Natura, per ‘l’anello che non tiene’, per ‘i gialli dei limoni’ che si lasciano guardare da ‘ un malchiuso portone’, come dice Montale appunto ne ” I limoni”.
Nella poesia di Battaglino è quel ‘giallo delle ginestre’ che richiama le gialle sonorità montaliane (ricordiamo i versi finali de “I limoni” di Montale :”e in petto ci scrosciano / le loro canzoni / le trombe d’oro della solarità”) a rivelare la sorpresa che in questo caso il poeta esprime con la cifra tutta personale del ricordo che vive e che si fa metafora concretizzata e forma in presenza: “ il drappello che lambisce l’asfalto / nell’ombra dell’acacia […] / vive ancora” dice Battaglino, riproponendo la virtù evocativa della poesia, l’illusione che si fa pagina e parole e dunque cessa di essere illusione, fata morgana, poiché diventa forma, resa in poesia.
Forte è anche il senso delle radici che il poeta fa suo in “Radici e ali” (p. 22) e custodisce nella parte a lui più cara i suoni delle parole, la cadenza lucana, “segno tangibile di appartenenza”; ma anche forte la curiosità che lo spinge a distendere le ali e ad andare lontano dalle radici, pronto per il volo.
Sono partenze “Oltre il visibile ”, che è anche il titolo della seconda sezione. Qui il poeta è ormai entrato nella terra dell’avventura, nell’età psichica adulta e si misura con le prove della vita, qualche volta con la tentazione di voltarsi indietro sempre riassorbita dal desiderio di volo.
L’infanzia si allontana e il senso della poesia cerca oltre il visibile, attraverso una fuga in avanti che, come catturata in un ‘buco nero’ risucchia verso il buio, forse come ancestrale regressione al mistero buio del ventre materno, che illude e che soffoca (“Un celeste continuo movimento”, p. 43); ma “un cono senza luce” che è anche promessa di vita, di uscita, come il bozzolo per la farfalla (“Farfalla costretta nel buco”, p. 48). Il volo è una difficile conquista di libertà, che è leggera come una piuma e può staccarsi dal peso della materia che incatena simboleggiata dalla città chiassosa e frenetica, la quale, vista dall’alto, appare come inchiodata a terra (“Su questo terrazzo provare”, p. 60).
Questa sezione centrale sembra segnare per il poeta l’impari lotta tra la voglia di volare e raggiungere il sole, scintillante divinità, come novello Icaro, e il peso della terra (ricordate il Montale di Esterina in “Falsetto”?: “Noi, / della razza di chi rimane a terra” ). Il dinamismo nasce dal contrappunto inconciliabile, dal moto immoto dentro il quale l’uomo si smarrisce, quasi altro Arsenio montaliano “sperso tra i vimini […] grondanti” che, trascinando con sé le radici, “si protende” sul vuoto. E Battaglino dice: “La vita, sai, è un cumulo di errori / […] bravura è solo limitarne il conto” (p. 61).
Così sospeso, nell’ultima sezione (“Pisa e dintorni ”), il poeta si affaccia a guardare Pisa, la città che lo ha accolto nella sua vita adulta. Sul Ponte di Mezzo, “passa lenta la fiumana […] / grigiogialla di mota e sterpaglie” che, prima a fatica, poi con impaziente energia, guadagna la foce dove finalmente ritrova la voce della leggerezza primigenia (“L’Arno dal Ponte di Mezzo”, p. 65 s.).
Tuffi nel mare, risvegli, leggerezza, sapori. E’ infatti con musica andante- leggera, con zampilli di allegria rossiniana che in questa città il poeta fa scorrere il suo presente e può fermarsi, come davanti a dei quadri, a guardare, a cogliere dettagli pittorici come in “Donna con rottweiler” (p. 76), dove si profila con tratto quasi grafico la silhouette della donna che incede nel “tailleurino attillato” col “fido compagno/ tenuto stretto al guinzaglio /[…] tutta pepe onnipresente” o in “Bonaccia” (p. 80), dove nell’atmosfera di un’ antica allegria, nella cornice di un finestrino, appare “una dama col bianco cagnolino / in libera uscita nella pineta”. Anche i titoli di queste poesie, se ben pensiamo, potrebbero essere i titoli di quadri pittorici impressionistici.
Arrivato come il fiume Arno alla sua foce, Battaglino sente di poter fare un bilancio poetico esistenziale della sua vita, ben ancorato al presente “ora che siamo qui”, certo di una ” raggiunta quiete ” e libero di seguire, attraverso l’immaginario creativo che non ha confini, le regioni aeree e sonore della poesia che appaga la sua sete. Allora, il pensiero dell’infinito, dove saremo “soffio d’aria fiato / pulviscolo”, non angoscia più il poeta, che, con spirito leopardiano (si ricordi “il naufragar mi è dolce in questo mare”) all’infinito mare si concede (“Ora che siamo qui, apriamo quanto”, p. 93).
Caro Battaglino,
la Sua poesia è straordinariamente fervida, avventurosa, saporosamente inventiva.
Ella sa raccontare con slancio e giocosa vivacità luoghi, incontri, stagioni, viaggi, cogliendo moti, figure, atteggiamenti, nel modo più incisivo e sicuro. La sezione Reminiscenze è bellissima, come pure molte visioni di Pisa, della Versilia e d’altri luoghi ancora.
Il Suo discorso poetico vince trionfalmente sia la troppa malinconia della nostra poesia d’oggi, sia gli abbandoni di moda nel troppo quotidiano e nella banalità del minimo.
Grazie! Con i più vivi auguri e saluti,
TRA RADICI E ALI, DOVE C’È POESIA
Articolata in tre sezioni, la raccolta di Michele Battaglino Radici e ali (Manni, 2006, pp. 96) si
identifica soprattutto con la prima, Reminiscenze, del resto più corposa, ricca di componimenti
più immediati, più emotivamente coinvolgenti, dove la memoria e le riflessioni si traducono più
direttamente in immagini. Si veda Mio nonno (p. 19), esemplare per l’andamento ritmico, la
plasticità della rappresentazione dei movimenti, l’equilibrio delle parti, le scelte lessicali,
l’affettuosa ironia culminante nel “rampino vittorioso”. Così Il Vallone dei Greci, come altri dove
non è necessariamente la nostalgia il nutrimento essenziale: in Vacanza estiva di quel mondo, in cui
la “fatica” era “un vestito / su misura per tutta la famiglia”, è restituito il giovanile sgomento; anche
Nitrire di puledri volanti, pur collocandosi in un doloroso presente, trova la medesima felicità di
espressione. La stessa che si ritrova anche dopo, in diverse altre poesie (pp. 52, 57, 59, 67, 69, 70,
76, 82 …) distribuite nelle due successive sezioni nelle quali prevale un atteggiamento raziocinante,
sentenzioso nella seconda (Oltre il visibile) e letterario nella terza (Pisa e dintorni).
Accomuna le tre sezioni il linguaggio incisivo, sorvegliato, dove la parola lavora paziente alla
ricostruzione di un grumo di realtà, un paesaggio come un moto dell’animo (pp. 15 e 91), un sogno
come un fatto, per consegnarsi al lettore solo nella raggiunta sintesi fra precisione e polisemia,
rigore e varietà del ritmo.
E tutte le sezioni sono essenziali al discorso che, estraneo a qualsiasi ideologismo, desolato ma
non arido, coglie i più vari aspetti del vivere sviluppandosi intorno alla contrapposizione fra luce e
tenebra, afa e voria, il qui e l’oltre. Si apre con la “stella polare”, la “lucciola / sparuta che buca le
tenebre”, continua con la luce che assegna colori all’ ‘entità informe’ e si conclude nell’intenso
testo di congedo dove l’emozione sempre contenuta pare per un attimo tracimare in un’onda
armonica che subito viene richiamata, e l’affermazione sconsolata dell’inutilità del vivere è frenata,
quasi contraddetta dalla volontà di continuare a perseguire oltre il tempo l’ideale, la luce, “l’aquila
regina irraggiungibile”, la poesia, che dà l’unico senso possibile all’inutile “tempo che ci è dato”.
Io ho in comune con l’autore di queste poesie quella che lui chiama la «cadenza apulo-lucana» (Radici e ali, v. 2), per la mia appartenenza etnica al suo stesso ceppo (lui è nato a Genzano di Lucania, i miei genitori erano di Palazzo San Gervasio, paese in provincia di Potenza, ai confini con la Puglia). Perciò mi sento vicino a parecchi temi di questa poesia, soprattutto della prima parte, dove si parla dell’infanzia e del passato lucano dell’autore. Ed è questa la parte dove più viene fuori la sua, non direi dipendenza, ma discendenza pascoliano-montaliana, che è stata sottolineata e da Alberto Casadei e da Patrizia Napoleone. Trovo giusta e corretta questa indicazione degli antenati.
Farei però qualche distinzione. Quella discendenza mi appare, tutto sommato, montaliana nel lessico, ma piuttosto pascoliana nello spirito. È vero, come dice Casadei, che la parte georgica e zoologica è vicina al mondo rurale di Pascoli; ma Montale ci ha insegnato a nominare le cose in un modo più risentito, espressionistico. Ora Battaglino è molto sensibile alla lezione linguistica montaliana. Il poeta degli Ossi di seppia lo si respira qui lessicalmente dalla prima all’ultima pagina. I materiali montaliani sono abbastanza visibili, talvolta anche vistosi, come, per es., in questo squarcio de Il Vallone dei Greci: «Più ardito portava molliche / anche ai falchetti nell’incavo / della roccia a strapiombo / (fuscello sospeso nel burrone)». Qui c’è tanto lessico montaliano, quello appunto degli Ossi (falchetti, strapiombo, fuscello sospeso), ma senza la metafisica negativa, senza l’atonia, l’asprezza, il nulla del mondo degli Ossi. Battaglino si tiene invece vicino all’esistenza delle cose, alla loro consistenza corposa, alla fragranza di tutto un mondo avito, richiamato dalla memoria nostalgica del poeta: un mondo georgico-zoologico («ruscello ove persici guizzano / … o vasto campo di stoppie con quaglie / e scriccioli a beccare chicchi di grano»: Nitrire di puledri volanti), ma anche un mondo magico, fatto di puledri volanti e di monachicchi burloni (idem).
In questo senso anche il nome di Pascoli va a mio parere usato con parsimonia. Anche se questa di Battaglino è una poesia in lingua, io penserei piuttosto alla suggestione di un altro poeta lucano, Albino Pierro, uno dei maggiori poeti dialettali del ‘900 (o meglio, uno dei maggiori poeti in dialetto, come preferiva essere definito lui), della Lucania meridionale, precisamente di Tursi, autore fra l’altro di ‘A terra d’u ricorde, Metaponto, I ‘nnammurète, dove questo mondo mitico, infantile, corposo è presente nelle forme aspre del dialetto tursitano. In Battaglino c’è la traduzione in italiano illustre del mondo etnico lucano: e qui, come abbiamo visto, gli soccorre l’esperienza linguistica di Montale. Ma lo spirito, come s’è detto, non è montaliano; e ora possiamo aggiungere, non è nemmeno propriamente pascoliano: troppa etnia lucana è immessa da Battaglino nello stupito fanciullino di Pascoli. Gli esiti, in questo senso, sono più pierriani, anche se in modi più soft, senza l’asprezza tellurica dello spiritato poeta tursitano. Il che vale quanto dire che, alla resa dei conti, Battaglino è Battaglino.
Quanto alle sezioni del libro, mentre la prima parte (Reminiscenze) è ricca di risultati positivi, la seconda (Oltre il visibile) è più rischiosa dal punto di vista degli esiti poetici, perché è più rischiosa la tematica: all’allora e al lì della prima parte si sostituiscono l’ora e il qui; ma non c’è solo l’ora, c’è anche il poi, i tempi si frangono; non c’è solo il qui, ma c’è anche l’altrove. È una tematica più complessa. Ma anche, appunto, più rischiosa, perché quando entra in contatto coi temi dell’attualità, soprattutto sociologica e storica, per es. l’alienazione prodotta dalla televisione accesa, che costringe i membri della famiglia a non parlare più fra loro (TV spenta), oppure le rapine, i furti, gli spargimenti di sangue (Nella vasca d’acqua schiumosa; Odio per le strade del mondo), l’autore sente sì questi temi, ma a suo rischio e pericolo, perché sono temi così condivisi dalla nostra sensibilità critica che la sua voce può sembrare poco originale. Tuttavia, nella seconda parte ci sono alcune punte, alcuni picchi, soprattutto di ispirazione metafisica, che mi hanno molto colpito proprio per la novità del discorso poetico. È il caso del componimento Ove tutto è predisposto, in cui si parla di un’attesa, descritta come un’attesa reale, con particolari presi dalla vita quotidiana («il tavolo e le sedie al loro posto / il tappeto disteso il letto rifatto / i quadri appesi le piastrelle lucenti /…accelerazione brusca di motorino / sbattere sordo di qualche uscio…»), ma in realtà è un’attesa metafisica. Mi ha ricordato, per certi aspetti, una poesia bellissima di Clemente Rebora, Dall’immagine tesa, il componimento conclusivo dei suoi Canti anonimi. Non so se Battaglino l’abbia letto, ma vorrei addirittura che non l’avesse letto, perché qui lui è un intelligente reinterprete, molto originale e molto attuale, di quel tema. Mentre Rebora è direttamente metafisico nella sua evocazione dell’attesa, Battaglino, invece, riesce a far entrare nel suo discorso immagini di cronaca quotidiana, le quali finiscono poi con l’avere una valenza metafisica. L’attesa è resa tanto meglio e tanto più efficacemente quanto meno ci si allontana dai particolari realistici. Bellissima è la chiusa, con quella non precisabilità dell’evento atteso: «Arriverà dal viale il fascio di luce / e colori. Arriverà… Già trabocca / la stanza. Cadono i muri. S’aprono / gli occhi al vasto orizzonte». Direi che questo sia un risultato notevole, un vertice di questa poesia.
Belle poesie ci sono pure nella terza parte (Pisa e dintorni), dove Battaglino si fa visitatore di luoghi, città, monumenti. Si prenda, per es., Doppio tramonto a Barga, dove il visitatore rimane incantato dalle «viuzze / di antichi palazzi» o dalle «strette / carraie gradinate che s’aprono / su minute piazzette ariose / a respirare gelsomini», rappresentate con tanta grazia. È questo il Battaglino viaggiatore, che si aggiunge al Battaglino reminiscente e al Battaglino metafisico, a formare il trittico poetico di cui si compone questo libro.
Il Vallone dei Greci
I pomeriggi di maggio nel Vallone
dei Greci selvaggio e vietato
lo scolaro incosciente sfuggito
al controllo di casa si arrampicava
sui rami più alti dei pioppi
a osservare estasiato nidiate
di piche implumi fino a diventare
le padrone del bosco e dell’aria.
Più ardito portava molliche
anche ai falchetti nell’incavo
della roccia a strapiombo
(fuscello sospeso nel burrone).
E la notte sognava intrichi di voli
e stridi o parlava agli uccelli.
(p. 23)
Spalanca la finestra e vede
Spalanca la finestra e vede
il sereno dopo lo scombussolamento
nero degli elementi.
Scrosciare fitto e dirotto per ore
con turbinio di foglie sotto i platani
sui marciapiedi e per la scalinata
che mena al belvedere
poi la pioggia sottile armoniosa
a raschiare quel sudicio incrostato
i sedimenti umani.
Lavati i davanzali e il terrazzino
brillano purificati
al sole che li leviga con le sue mani
il viola delle petunie impregna l’aria
e tutto torna lindo primigenio.
(p. 41)
Mio nonno
Mio nonno paziente a gambe
divaricate sulla bocca del pozzo
– gigante eroe uscito dalle fiabe –
palpeggia il fondale con la lopa
uncinata disegnando lente volute
e scruta il minimo impatto
un movimento una presenza viva.
Accostato furtivo al muro proibito
rimiro con avida curiosità
e paura la voragine scura
finché dal buio a poco a poco arriva
impigliata nel rampino vittorioso
la mia maglia nuova arancione
grondante d’acqua e di luce.
(p. 19)
Radici e ali
Segno tangibile di appartenenza
resta la cadenza apulo-lucana
l’affiorare istintivo di proverbi
e lessemi dialettali per scolpire
sentenze o ravvivare emozioni
la visione ricorrente di campi
di grano colline ondulate armenti
ma anche la voglia di volare
oltre la fitta barriera dei monti
squarciando il velo della conoscenza
sperimentare la varietà delle razze
(delle coscienze e dei comportamenti)
far breccia nel determinismo del moto
universale aprendo spiragli.
(p. 21)
Nitrire di puledri volanti
Nitrire di puledri volanti visti
dalla tua mente (in questo mondo
oggi ti riconosci
che sfinita giaci supina
attorniata da volti vaganti)
aggirarsi di monachicchi burloni
nella camera dilatata
che è ruscello ove persici guizzano
d’estate tra barbi e capitoni
o vasto campo di stoppie con quaglie
e scriccioli a beccare chicchi di grano.
Ti urta il fare sardonico o il doppio
annuire di parenti e badanti
per ossequio all’età veneranda.
Ancora scacci i tacchini dall’aia
setacci farina impasti pane
o hai visite mute di antenati
e vecchi conoscenti piazzati
al centro della stanza e allora
su tovaglia che sa di lavanda
disponi vivande per tutti.
Seduto accanto al letto mi basta
ascoltare con rispetto filiale
mentre tessi pensieri a voce chiara.
(p. 26)
Ove tutto è predisposto
Ove tutto è predisposto
(il tavolo e le sedie al loro posto
il tappeto disteso il letto rifatto
i quadri appesi le piastrelle lucenti
l’acqua cambiata nel vaso dei gigli)
è lì che attende impaziente
balza in piedi va alla finestra
tende l’orecchio al minimo brusio
a un probabile calpestio.
(Ecco improvviso alito di vento
accelerazione brusca di motorino
sbattere sordo di qualche uscio
che rompe l’immobilità del giardino).
Pendono maturi i frutti dal nespolo
vi sosta una coppia di storni.
Arriverà dal viale il fascio di luce
e colori. Arriverà… Già trabocca
la stanza. Cadono i muri. S’aprono
gli occhi al vasto orizzonte.
(p. 58)
Non il merlo familiare che chioccola
Non il merlo familiare che chioccola
e staziona quaggiù fra gli sprocchi
della siepe e la prossima boscaglia.
Non il gabbiano stridulo che voli
intreccia su esigue lingue di mare
che nella discarica aperta
va a saziare la fame e immondo
torna a occupare gli scogli.
Ma l’aquila regina irraggiungibile
che sulla vetta aspetta il chiarore
e festosa grida librandosi in alto
fissa imperterrita i raggi infocati
e s’illumina si inebria
e sfinita appagata rientra a casa
sulla rupe ove altre escursioni
progetta più vicine al sole.
p. 59)
L’Arno dal Ponte di Mezzo
Per mezza Toscana si spazia
un fiumicel che nasce in Falterona
e cento miglia di corso nol sazia…
(DANTE, Purgatorio, XIV, 16-18)
Passa lenta la fiumana
sotto il ponte
grigiogialla di mota e sterpaglie
di scorie confluite qua e là e liquami
il superfluo di questa civiltà.
Alle spalle per sempre il Falterona
imbiancato e i prati del Casentino.
Più affannoso gli si fa il respiro
vischioso di variegati intrugli
ma il Tirreno è a due passi
e l’Arno freme impaziente
perché già sente vicino il salmastro.
Sulle banchine e sulle spallette
stormi
di colombi e gabbiani prendono
il sole novembrino
un airone cinerino plana
ampio
e rapido dispare oltre i tetti
e la nutria regale sfila portata
dalla corrente sotto occhi
spalancati
di ragazzini incollati
ai parapetti.
Ecco ormai si intravede la foce
ove l’acqua si rituffa nel mare
si riscuote nuotando e si scioglie
tra sciacqui e tenerezze e nel fondo
adagiata sui sassi
purificata
la leggerezza ritrova
la sua voce
i sapori dell’antica sorgiva.
(p. 65 s.)
Ora che siamo qui, apriamo quanto
Ora che siamo qui, apriamo quanto
è in noi senza limiti di mete,
senza remore. Per me starti accanto
è garanzia di raggiunta quiete,
o bianca nuvola aerea, canto
di sirena che appaga questa sete,
calice di rugiada dove schianto
di emozioni ci stringe in una rete.
Se altro saremo (soffio d’aria fiato
pulviscolo) come ritrovare
i tuoi occhi lucenti, il tuo respiro,
le tue mani? Il tempo che ci è dato
(lungo che sia) è appena un sospiro
inutile nell’infinito mare.
(p. 93)
TRACKS
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